Appunti per l’incontro di polivisione del 31/03/2017
"Cosa c'è prima e dopo un intervento di cura rivolto a un bambino?
Ci sembra di poter tradurre così la domanda che è stata posta a febbraio, nell'ultimo incontro di polivisione che si è svolta nello studio Nuovi Percorsi in via Borelli 5, Roma.
Un bambino viene portato dai genitori perché possa seguire una terapia neuropsicomotoria ma durante gli incontri appare evidente come sia necessario includere la coppia genitoriale nella terapia che nell'istituzione non ha un suo spazio.
Il bambino richiede alla terapista della neuro e psicomotricità, la presa in carico complessiva delle sue emozioni, della sua fatica di relazionarsi con l'altro.
La terapista si domanda quale istituzione sorregga la domanda di cura a lei rivolta, quale tessuto relazionale, umano e professionale sia necessario costruire affinché il bambino, che lei incontra, possa trovare le risorse sufficienti per utilizzare al meglio le proprie competenze e farle evolvere.
Può la solitudine della coppia adulto, bambino, probabile solitudine delle relazioni familiari, essere un motore del cambiamento?
È possibile prendere in cura solo il bambino?
Prendere in carico un bambino con disturbo dello sviluppo vuol dire iniziare un percorso insieme.
Conoscere il disturbo e le difficoltà che ne conseguono, essere preparati ad affrontare le problematiche che strada facendo emergono, saper scegliere ed organizzare le proposte terapeutiche più adatte, confrontarsi con i vari caregivers che ruotano intorno al bambino, consigliare i genitori su attività e comportamenti da adottare a casa, al parco, etc. è ciò che viene richiesto all’operatore quando attiva una terapia riabilitativa.
La domanda posta nell’incontro di polivisione, svolto nello studio Nuovi Percorsi, nasce proprio da questi presupposti; come può il riabilitatore prendere in carico solo il bambino con difficoltà quando la coppia genitoriale ha evidente bisogno di essere aiutata?
Ciò che emerge dal confronto con il gruppo vede come linea di partenza la definizione di confini relazionali comunicanti, nella triade bambino-terapista-famiglia; prevede un supporto attivo dell’istituzione, pur riconoscendo i limiti sanitari delle strutture presenti sul territorio, che ridefinisca i ruoli e sia in grado di accogliere e supportare le domande di tutti gli individui che partecipano al percorso di cura del piccolo paziente.
In estrema sintesi questo quesito viene posto all'attenzione del gruppo durante la prima sessione di lavoro, quella a metodica neuropsichiatrica.
Nel gioco drammatico che si è svolto a seguire, nella condivisione del gruppo in setting di psicodramma analitico, il bambino non ha altre parole che battere i piedi, così da segnalare come la sua corporeità non possa ancora essere simbolizzata e come l'impotenza vissuta dalla terapista, sia la lettura di un sintomo, porta di accesso per il futuro incontro tra domanda del bambino e strategie di cura.
Dalla doppia lettura del gruppo di polivisione, emergono i segni del lavoro da progettare, lavoro in cui la relazione del bambino con la professionista, la relazione della professionista con gli altri pari del gruppo di lavoro dello studio, il lavoro da avviare con la coppia genitoriale, siano gli strumenti per costruire un fuori e un dentro, spazi separati ma comunicanti, in cui possa circolare la domanda di crescita dell'uno, del bambino rivolta all'altro, adulto, genitore, professionista.
Lo spazio da costruire lo abbiamo definito il progetto dell'Istituzione che sta prima e dopo il soggetto stesso, prima e dopo l'intervento del professionista, prima e dopo la costituzione della famiglia che porta all'altro il proprio desiderio."
Write a Comment