“Per fare un tavolo ci vogliono due [L] e quattro zampe” Polivisione 19-11-22
Introduzione al seminario di Polivisione del 19/11/2022
di
Nicola Basile
"La lettera, nondimeno, era rovesciata, coll’indirizzo fuori, e, il suo contenuto rimanendo così nascosto, essa non fu notata"
E. Allan Poe - La lettera rubata
Guardando un tavolo dall’alto...
Guardando un tavolo dall’alto può essere visto come due L simmetriche che ruotando sul piano danno vita a uno spazio delimitato. Da qualche parte, sul perimetro si trova un poco nascosto il soggetto, in qualche altro punto, forse sui vertici o sulle diagonali, discorsi di altri.
A questo tavolo che noi ricordiamo come un “non luogo di incontro” tra figli, figlie e la coppia genitoriale, viene posta una domanda: “Mi riconoscete? Sono ciò che è altro da voi ma che da voi è stato nominato e che in quel nome agogna di potersi identificare”. Il testo volutamente nasconde il genere del parlante, che ha effettivamente preso parola nella scorsa sessione del seminario, ma è chiaro che il soggetto interrogante attende una risposta, forse perché è tagliato fuori dal desiderio di coloro che lo hanno generato e di cui il terzo condivide il desiderio. [1]
Affinché ci sia un parlante, è chiaro che troviamo un “Io”, cioè una forma di identità che può distinguersi dall’altro in quanto sa esprimere parola. Tuttavia, proprio questa parola è un luogo perfetto in cui il parlante si nasconde, in quanto “il significante è ciò che rappresenta un soggetto per un altro significante” [2]
Una domanda che nasconde il discorso
Poco importa che il nostro soggetto sia maschile o femminile, poiché egli pone la domanda, il discorso stesso che lo nasconde. Potrebbe chiedere all’altro delle rose che ricorda nel giardino d’infanzia, ma le rose, dotate di spine, fanno esprimere al parlante il dolore che le spine provocano a chi non sa bene maneggiarle. Poiché il soggetto non è una rosa, è un uomo, è una donna, parla di dolori e profumi che parlano per lui, celandolo, forse proteggendolo, poiché la rosa diviene un profumo, un ricordo, un gesto. È la rosa che parla? È il dolore di una spina che ha attraversato la pelle a comunicare il rosso purpureo di una goccia di sangue? A chi appartiene il sangue, a chi era destinata la rosa?
Quale sia il luogo da cui prende vita il discorso, è la domanda che è vitale porsi per non cadere nel tranello del discorso che rimanda sempre a un altro termine, a un altro sogno, a un frammento di un’opera d’arte visitata anni prima. L’origine del discorso di colui o colei che parla è sempre nell’Altro a cui l’epistola è destinata. [3]
Non tradire lo specchio che lo riflette.
Ad un tavolo, rettangolare, composto da due lettere, identiche ma rovesciate, il discorso trova casa in quanto l’uno può chiedere che l’altro riconosca il proprio desiderio. Ma in realtà è solo il discorso che arriva all’altro che permette all’emittente di riconoscere che lui esiste. [4]
Se mi racconto a te, se incontro te, se tu ascolti me, io sarò il discorso che si sta veicolando tra me e te, e il discorso si farà filo sottile e resistente dell’immagine che tu restituirai a me, che io donerò a te, io specchio di te, tu specchio di me, ignari che nessuno dei due sta nel suo posto. [5]
L’altro chiede di non tradire lo specchio che lo riflette, incarnato ora dall’ascoltatore, ora dal parlante, affinché i due specchi frontali si riflettano infinite volte, fino a confluire in un punto non più distinguibile, l’inconscio. Mentre scrivo sono anche il lettore, mentre mi presento sono anche lo sconosciuto a cui porgo il saluto, mentre ascolto jazz sono ciò che ogni armonico emesso dal jazzista rimanda ad infiniti altri armonici di cui non conosco l’esistenza ma di cui vivo l’esperienza. “Quando il soggetto parla con i suoi simili, parla nel linguaggio comune, che tratta gli io immaginari non come cose semplicemente ex-sistenti, ma reali. Non potendo sapere che cosa c’è nel campo del dialogo concreto, ha a che fare con un certo numero di personaggi, a’, a”. In quanto il soggetto li mette in relazione con la propria immagine, coloro a cui parla sono anche coloro a cui si identifica” [6].
Muro
Lacan chiama muro del linguaggio quel muro che rende vana la comunicazione tra soggetti. Quel muro rende il messaggio una lettera vuota in quanto il contenuto della lettera è sempre postato in un altrove che rende vana la ricerca del destinatario. Inutile che io chieda una risposta concreta a colui che se n’è andato, come potrà egli rispondermi? Quandanche egli tornasse, quella domanda probabilmente non avrebbe più senso, lasciando così il sospetto che non fosse mai stata alcuna domanda a cui l’altro avrebbe potuto rispondere.
Prendimi con te! - chiede l’amante, all’amato che si allontana. Colui che si allontana non risponde e così si trova a intrecciare il suo silenzio con la domanda a cui non può rispondere. L’uno vorrebbe catturare l’altro che volge le spalle ma è la domanda stessa che fa muro con chi si allontana; l’altro si distacca ma la separazione ha posto un legame, un nodo, che fa muro dietro cui nascondersi.
Da chi potrebbe allontanarsi se non da sé stesso? A chi sta parlando l’implorante?
In questo dialogo nessuno può mostrare chi sia, in quanto il discorso immaginario rende possibile solo parole vuote, simili a caramelle che non leniscono la fame di pienezza.
Non c’è dunque speranza? E dunque perché si utilizza un setting psicodrammatico come strumento psicoanalitico per far emergere dal labirinto immaginario la traccia del soggetto che si nasconde nel rinvio di un significante con un altro significante? “L’analisi consiste nel fargli prendere coscienza delle […] relazioni [del soggetto], non con l’io dell’analista, ma con tutti quegli Altri che sono i suoi veri interlocutori, e che non ha riconosciuto. Il soggetto deve progressivamente scoprire a quale altro si rivolge realmente, senza saperlo, e assumere progressivamente le relazioni di transfert al posto in cui è, e dove all’inizio non sapeva di essere” [8].
Gioco e appello all'Altro.
Prendimi con te! - chiede l’amante, all’amato che si allontana. Colui che si allontana non risponde e così si trova a intrecciare il suo silenzio con la domanda a cui non può rispondere. L’uno vorrebbe catturare l’altro che volge le spalle ma è la domanda stessa che fa muro con chi si allontana; l’altro si distacca ma la separazione ha posto un legame, un nodo, che fa muro dietro cui nascondersi.
Da chi potrebbe allontanarsi se non da sé stesso? A chi sta parlando l’implorante?
In questo dialogo nessuno può mostrare chi sia, in quanto il discorso immaginario rende possibile solo parole vuote, simili a caramelle che non leniscono la fame di pienezza.
Non c’è dunque speranza? E dunque perché si utilizza un setting psicodrammatico come strumento psicoanalitico? Attraverso il gioco e l'appello all'Altro la traccia del soggetto emerge dal labirinto immaginario del rinvio di un significante con un altro significante. “L’analisi consiste nel fargli prendere coscienza delle […] relazioni [del soggetto], non con l’io dell’analista, ma con tutti quegli Altri che sono i suoi veri interlocutori, e che non ha riconosciuto. Il soggetto deve progressivamente scoprire a quale altro si rivolge realmente, senza saperlo, e assumere progressivamente le relazioni di transfert al posto in cui è, e dove all’inizio non sapeva di essere” [8].
Un non luogo di cui avere cura: l'inconscio.
Se intorno un tavolo poniamo coloro che vanno a trovare e coloro che attendono di essere ascoltati, premiati, amati, il vero discorso di coloro che sono in attesa di esser presi, è quello di sentirsi nella funzione di coloro che se ne vanno. Ma nel momento stesso in cui si gira dall’altra parte del tavolo, la parola vera è ritrovarsi nel posto di coloro che attendono l’arrivo dell’Altro senza aver più domande da porre, in quanto il gioco di ricevere risposte, parole vuote, dura quanto il sapore di una caramella. Quindi il nostro domandare è una risposta, ovvero, la parola autentica è possibile facendo parlare l’Altro come tale. Se “io” dico, “tu sei il mio maestro” (parola vuota), dall’Altro arriva la parola vera: “io sono il discepolo”. [9]
La caramella, il dono, fa sentire cattivo chi lo riceve, in quanto il discorso è sempre ambiguo o riflesso: l’uno premia perché l’altro possa dimenticare le offese; accettando il dono si pone la firma sulla cancellazione della relazione. L’inconscio lavora per inversioni, condensazioni, metonimie e metafore, ciò che appare palese, nasconde, ciò che nasconde, palesa. Dare un posto all’inconscio è il lavoro di tutti e tutte educatrici e educatori, psicologi e psicologhe, operatori sanitari, scrittori e scrittrici, uomini e donne di buona volontà che dall’asse immaginario dell’etica, si sforzano di far emergere il soggetto del simbolico. La clinica vera è la ricerca della parola che risuona negli accordi della vita nascondendosi tra gli armonici, quella che fa apparire il buco nel muro.
Note e crediti
[1] Dolto F., Il desiderio femminile, Mondadori, Milano, 1994, pp. 288-289.
[2] “un significante è ciò che rappresenta un soggetto per un altro significante” J. Lacan, «Sovversione del soggetto e dialettica del desiderio nell’inconscio freudiano», in Scritti, vol. II, a cura di G.B. Contri, Einaudi, Torino 1974, p. 822.
[3] “Applicheremo, per fissare le idee e le anime in pena la suddetta relazione sullo schema L già proposto e qui semplificato. Che significa che la condizione del soggetto S ( nevrosi o psicosi) dipende da ciò che si svolge nell'Altro A. ciò che vi si svolge articolato come un discorso ( l'inconscio è il discorso dell'Altro), la cui sintassi Freud ha cercato di definire in un primo tempo nei frammenti che in momenti privilegiati, sogni, lapsus, tratti di spirito, ce ne giungono. In che modo il soggetto sarebbe interessato a questo discorso se non fosse parte interessata? E lo è infatti, in quanto stirato ai quattro angoli dello schema, e cioè: S, la sua ineffabile stupida esistenza, a, i suoi oggetti, a’, il suo io, cioè quel che della sua forma si riflette nei suoi oggetti, e , A, il luogo donde può porglisi la questione della sua esistenza. Lacan J., Una questione preliminare ad ogni possibile trattamento della psicosi, Scritti, Einaudi, Torino, 1974, vol. 2, p. 545
Interpretazione dello schema L proposta da Giovanni Bottiroli in https://www.giovannibottiroli.it/it/psicoanalisi/61-estimita-intimita.html
[4] Sull’asse immaginario ritroviamo lo stadio dello specchio nel quale si gioca la riconquista dell’identità in quanto immagine dell’altro, assunta come propria immagine, infatti, attraverso l’immagine dell’altro possiamo avere accesso alla nostra identità. Quindi l’altro nello specchio, che è l’immagine dell’Io, sarà il filtro attraverso il quale noi percepiremo l’altro, il simile che sullo schema viene identificato con a’: “[…] la forma dell’altro ha il più stretto rapporto con l’io, gli è sovrapponibile, e lo scriviamo con a’“. Lacan J, (1954-55) Il seminario Libro II. L’io nella tecnica di Freud e nella teoria della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 1991, p. 281
[5] Il filosofo francese Maurice Merleau Ponty (1908-1961) ha chiamato uno specchio "lo strumento di una magia universale che cambia le cose in occhiali, gli occhiali in cose, me in altri e altri in me”
[6] Lacan J, (1954-55) Il seminario Libro II. L’io nella tecnica di Freud e nella teoria della psicoanalisi, Einaudi, Torino, 1991, p. 281 in “Schema L” di Giuseppe Salzillo https://www.giuseppesalzillo.it/schema-l-psicologo-milano-navigli/
[7] idem
[8] idem
[9] https://www.giuseppesalzillo.it/schema-l-psicologo-milano-navigli/
Si ringrazia il dott. Giuseppe Salzillo di cui apprezziamo il blog e si resta a disposizione per eventuali correzioni o crediti non correttamente riportati.
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