Categoria: memoria

In un tempo di eterno presente

 

recensione di Nicola Basile

 

Una voce torna da un lontano passato, chi la esprimeva non è presente ma un corpo sonoro la rende viva. È l’intreccio che viviamo quando la tessitura della poesia, fa breccia nel rumore della vita e ottiene ascolto. Poesia e sogno richiedono entrambi tessitura, ascolto e silenzio, affinché possano essere creati e narrati. Essi vivono di continui rimandi: la poesia permette al lettore di avvicinare l’assente fino a sentirlo pelle della propria pelle; il secondo porta in dota l’assenza di un tempo distinto e sollecita il passato a farsi odierna esperienza e l’oggi a mescolarsi con il dimenticato.
Italo Calvino imparava le poesie a memoria affinché esse potessero riemergere dalla dimenticanza rendendo la realtà segno dell’onirico. (1) Rilke scrive "le storie del Buon Dio" (2) affinché esse potessero essere narrate ai bambini. Lo scrivente narra le fiabe che ha letto e che si sono sedimentate nella sua memoria per uscire mai uguali a se stesse affinché l’ascoltatore le renda vive nel suo desiderio.
Quando leggiamo un libro di poesie tradotte da un’altra lingua, chi ascoltiamo, il sogno del poeta o quello del traduttore? Se superiamo l’opposizione, possiamo affermare che la tessitura di un incontro tra soggetti desideranti, la reciproca assenza possano mescolandosi, diventare libro di poesie scritto tra due donne, Eleftherìa Sapountzì, poetessa scomparsa nel 2000 e Viviana Sebastio, traduttrice che immagino su una spiaggia dell’Egeo?
E il lettore di “In un tempo di eterno presente” (3) cosa cerca?
Nelle righe di brevi segni poetici cerco la poetessa come la traduttrice, in una sovrapposizione di figure simile al meccanismo del sogno definito da Sigmund Freud (Freud 1899) come condensazione (4).

“Ieri mi hanno vista
vagare insonni altrui.
chissà dove andavo ancora
e infilandomi tra vicoli
mi sono confusa e persa per ore
Vagavo qua e là. Come stai
Non avevo nulla con me
vagabondavano soltanto,
il mio cuscino al mattino era privo di prove”

Non c’è un titolo per strappare questi versi agli altri, solo un numero “14” e un numero poiché i versi appartengono tanto alla poetessa, tanto alla traduttrice, tanto a chi sogna il sogno e ritiene di rimanere nella veglia, altrimenti non potrebbe narrare di aver letto di poesia. Così da lettore veglio sull’assenza della poetessa e di colei dal greco ha traghettato il “sogno poesia” in italiano.

Al numero 23 vengo interrogato:

“I mesi nascondono parole
Che- dopotutto- chi
le capirebbe?”

Non so rispondere e non desidero rispondere poiché le parole della “poesia sogno” non si sottomettono alla comprensione poiché esse rendono servizio alla “libertà” dell’inconscio di vivere nella realtà del diurno.
Paul Eluard scrive:

“Sul mio cane ghiotto e tenero
Su le sue orecchie dritte
Su la sua zampa maldestra
Scrivo il tuo nome”

E' dove la cerco anche io, adolescente lettore di Paul Eluard, poiché libertà non cessa di nascondersi, sussurra Sapountzì (o a suggerire sono coloro che hanno tradotto per me?):

“ E soprattutto resto
nella sua zona d'infinito
lì dove cambiano senso
criminose e imploranti
lì dove si nascondono chiave e porta”

Ringrazio autori, traduttori, editori per continuare a farmi sognare e auguro a chi leggerà di poesia una buona attività onirica.

 

Note:
1 Carabba Enzo Fileno - Il giardino di Calvino - Ponte alle Grazie - 2023
2 - Rilke. R. M. - Le storie del buon Dio" - Rizzoli - 1978
3 - Sapountzì
Eleftherìa - In un tempo di eterno presente - edizioni Ensemble - 2022
4 - Freud S. - L'interpretazione dei sogni - Opere - Bollati Boringhieri

 

 

manifesto per il reclutamento

CHI CI RAPPRESENTA È ANDATO ALTROVE

Ero nello stesso 8 agosto di oggi, appena quattro anni fa e l’eccidio di Marcinelle allora come oggi richiedeva un pensiero generativo, non solo celebrativo per poter essere in pace domani. Scrivevo ai colleghi della Società Italiana di Psicodramma Analitico con cui condivido il piacere della ricerca nella psicoanalisi da oltre vent’anni per riflettere sui processi di migrazione, aspri allora come oggi. Affermavo che era necessario farlo per porre noi stessi nella condizione di “erranti”, di coloro che si pongono nella posizione di ricerca di un luogo in cui la vita quotidiana conosciuta non si possa considerare l'unica forma di esperienza possibile.
Il testo proseguiva così:
“Lo abbiamo pensato in tutti questi anni per porci nella condizione di ascolto dell'altrove che il sintomo psichico, la fatica di vivere, ci chiede di tradurre e chiede di poter trasformarsi in quadro, orizzonte, progetto, riconoscimento.
Esattamente sessanta anni fa morivano a Marcinelle 262 minatori divisi in ben 12 nazionalità di cui 136 italiani. Morirono a 975 metri sotto la terra e in quel momento erano i rappresentanti di ben tre continenti.
Un freddo elenco di deceduti per nazione, ci riporta a un Europa che era stata pensata a Ventotene, che vedrà a Roma i primi vagiti in quegli anni e che oggi ha necessità di un progetto di vita, come lo richiedono ancora i minatori di Marcinelle:
136 italiani; 95 belgi; 8 polacchi; 6 greci; 5 tedeschi; 3 ungheresi; 3 algerini; 2 francesi; 1 britannico; 1 olandese; 1 russo, 1 ucraino.
Cosa cercavano questi giovani tra le profondità della terra, questi giovani che tali sono rimasti da allora?
Ciascuno di loro sapeva che un luogo altro doveva esistere, un luogo che poteva dare corpo alle loro aspettative, ai loro sogni di niente, sogni che pensavano a un'esistenza altra di cui non potevano neanche delineare i contorni. È legittimo pensare che il desiderio di quella gente non riuscisse a esprimersi in forma di parola, essendo sempre collocato in un luogo altro dalla vita reale, essendo la loro parola, parola di servi che cercava il proprio linguaggio, la propria espressione, nel linguaggio dell'altro. Poi un giorno, quel desiderio, trovò espressione in una forma gentile: un manifesto rosa pallido. Su quel leggero foglio appeso tra i piccoli paesi del sud Italia, chi poteva leggeva, e molti chiedevano ai pochi di leggere, la speranza di un lavoro, di carbone per scaldarsi, di un premio per i figli, premio da trovare sotto la terra. E si, che di vita, sotto la terra, il nostro sud, come ogni sud della terra che s'incontrarono quel 8 agosto del 1956 in Belgio, molto sapevano.
Sotto la terra Proserpina scompare al suo amante per apparire solo nello splendore primaverile, sotto la terra si seppelliscono i morti perché sopra la terra i riti del lutto si possano esprimere in canti e cerimonie, sotto la terra si deposita il seme affinché nove mesi più tardi si posi il pane sul tavolo. E la terra era molto più vicina a tutti quei giovani di quanto non lo sia oggi sotto i piedi dei nostri giovani del 2016. Sotto la terra, quel popolo di giovani, non aspettava solo il buio, non aspettava una paga appena sufficiente per sfamare sé stessi e i propri cari, non aspettava di vivere in baracche che non potevano essere chiamate case, cercava il luogo atteso da una promessa di riscatto, passata di bocca in bocca attraverso le generazioni. Si mosse verso un luogo, annunciato da un manifesto rosa pallido, tintura della tipografia dell'epoca, che esprimeva, meglio di ogni altro strumento, il luogo altro che il desiderio non sapeva tradurre in parole, non essendo il desiderio stesso capace di trovarle. Il capitale utilizzò inchiostro e carta per tradire i desideri di una generazione, la speranza di vita di uomini e donne che non trovarono parole più attraenti che quelle stampate su manifesti di leggera carta, incollati a mura sbrecciate. Il capitale spedì più di mille italiani a estrarre dalle viscere della manifesto per il reclutamentoterra belga il di più di energia che doveva servire a alimentare la produzione di merce contro braccia, cose contro desideri, sintomi contro poesia, fumo dentro i bronchi per togliere il diritto alla parola. Chi scrive era nato da qualche mese e quell’8 agosto del 1956 ascoltava la parola dell'altro e si faceva essere di parola. Chi rimase sotto quei mille metri di terra, non ebbe più parola da cantare nei riti, non ebbe più desideri da incorniciare in un altrove che si fa incontro con l'altro. Ma può essere ancora cantato da noi con le parole di un mio amico che come me all'epoca non aveva parole ma che oggi, come me, ha superato i sessant'anni.

Noi che festeggiamo i sessant'anni
Non sappiamo da dove veniamo
I nostri nonni in fondo alle miniere
Le loro vite date per carbone.

Morirono italiani a Marcinelle
Morirono soffrendo in terre amare
Rinacque la speranza dalla guerra
In un'Italia già ferragostana.

Olimpiadi medaglie luccicore

Chi ci rappresenta è andato altrove.

                                   Concezio Salvo

A chi come noi intende la psicoanalisi come un delicatissimo strumento per dare parola all'altrove, ai luoghi del pensiero che si esprimono in forma di linguaggio ma che non trovano altro che sintomi, Marcinelle non è solo un ricordo, ma una continua sfida etica.