di Sarah Salvatore
Nell’ambito della mia formazione in psicoterapia, presso la C.O.I.R.A.G., ho avuto modo di fare un’esperienza di osservazione partecipante in un gruppo di psicodramma analitico co-condotto da due analisti, all’interno di un’istituzione per giovani madri. La casa famiglia accoglie, con i loro bambini, giovani madri in difficoltà sociali ed economiche, inviate dal Tribunale per i minorenni e dal Servizio Sociale. Si tratta di donne che provengono da esperienze di violenze, abusi, soggetti invisibili in contesti di marginalità.
La maggior parte di loro ha interrotto gli studi, alcune non li hanno mai iniziati. Sono spesso sole, senza un compagno. La casa famiglia si pone come guida per queste donne affinché imparino ciò che è necessario per la cura di sé, del proprio figlio. Il progetto, per ogni ospite, dura almeno tre anni e si conclude quando la donna e madre riesce ad attivare le risorse necessarie per identificarsi con una persona sufficientemente responsabile, riesce a prendersi cura del proprio figlio, raggiunge un’autonomia professionale in grado di assicurarle la possibilità di mantenersi insieme al suo bambino.
Il metodo di lavoro dell’istituzione utilizza come modello teorico di riferimento in campo psicologico un orientamento psicodinamico e, in campo educativo, un approccio di matrice montessoriana. Per favorire un modello di vita costante e concreto, le giovani madri sono coinvolte appieno nella gestione del quotidiano della casa famiglia.
Il controllo della dispensa e dei medicinali, l’approvvigionamento e la definizione dei menù, sono solo alcuni dei compiti che le ragazze condividono con gli operatori, piccole azioni quotidiane che riportano ad una dimensione responsabile di vita.
Alle giovani donne viene proposto, inoltre, un piccolo lavoro retribuito nella casa famiglia, con un accordo interno e una costante verifica, con il fine di avviarle a un’esperienza lavorativa graduale e protetta.
L’ipotesi di base del progetto di reinserimento del nucleo madre-bambino nella società, è che le ospiti che arrivano in istituzione siano state maltrattate nella loro infanzia, ne risulta un rapporto complesso con se stesse e con i figli. Il lavoro della casa famiglia tende a offrire esperienze di contenimento e ascolto per costruire la capacità di occuparsi di sé e per acquisire autostima come donne e come madri. Per realizzare questo, la casa famiglia garantisce loro l’esperienza di essere ascoltate, di essere nel pensiero di qualcuno, di poter rivolgersi ad una figura di riferimento che è l’educatore.
Il sostegno alla relazione madre-bambino è al centro del lavoro dell’educatore di riferimento. A tal fine è stata messa a punto l’esperienza dello “spazio mammebambini”. Gli operatori sono impegnati, a turno, a garantire alle mamme e ai bambini un tempo e uno spazio di gioco comune. In stanze della casa famiglia opportunamente attrezzate con giochi “pensati”, in pomeriggi definiti, i bambini, una mamma e un operatore giocano insieme. L’operatore valorizza con la propria attenzione e con le proprie risposte il comportamento dei bambini e i loro giochi. Offre un modello educativo, proponendo occasione di scoperta, segnala alle mamme le conquiste e l’importanza dei comportamenti dei bambini e le coinvolge nelle attività. Inoltre, la casa famiglia garantisce, una volta alla settimana, la partecipazione obbligatoria ad una psicoterapia in gruppo attraverso lo psicodramma analitico. All’ interno di questo dispositivo terapeutico, le giovani donne ospitate possono trovare uno spazio in cui portare le loro richieste di madri e di figlie. Nel gruppo hanno la possibilità di riscoprire gli strumenti per non farsi dominare dalla pulsione ereditata dalla violenza subita e per affermare che il mito familiare dell’abbandono e della violenza non si perpetui. Per queste giovani donne, i padri non rappresentano una funzione simbolica. L’istituzione si propone di assumere questa funzione attraverso un attento lavoro educativo di relazione di cura dedicato alla madre e al bambino, e attraverso un lavoro terapeutico in gruppo: la coppia di psicodrammatisti risponde alla funzione simbolica della richiesta al padre di essere separate dal corpo materno.
L’esperienza di osservazione è durata solo cinque mesi, in quanto il gruppo è stato interrotto. Mi è stato richiesto dagli psicodrammatisti di assumere la funzione di osservatrice partecipante, che può essere chiamata come Io Ausiliario durante i giochi nelle sedute. I miei interventi hanno tenuto conto del rispetto di una consegna fornita dagli psicodrammatisti: mantenere il ruolo assegnato nel gioco, affinché le partecipanti al gruppo potessero identificarsi in una giovane donna che sta completando un percorso importante di crescita nella propria vita. Questo lavoro mi è servito a livello formativo perché mi ha permesso di allenarmi ad un ascolto nella posizione dell’altro, e ha avuto un’utilità per le partecipanti al gruppo, le quali hanno potuto, in tal modo, vedere che altre donne potevano giocare il loro gioco in modo differente, senza esserne travolte.
Le due vignette cliniche che presento sono state estrapolate dai protocolli elaborati tra una seduta e l’altra. Sono riprese da incontri in cui Maria, una partecipante al gruppo, è stata invitata a mettere in scena parti del suo discorso e ha scelto me come Io Ausiliario. L’analisi delle sedute si riferisce ad una riflessione clinica avvenuta in un secondo momento, in un tempo diverso, ovvero quello relativo alla stesura di questo lavoro. Si tratta di una rivisitazione del percorso realizzato durante l’osservazione e nel corso della prima scrittura. Mi sono chiesta come mai abbia scelto proprio Maria come soggetto di questo scritto. Penso che c’è qualcosa che mi permette di scorgermi in lei. Maria è una giovane donna molto intelligente e sensibile, è l’unica del gruppo ad aver già fatto esperienza di psicodramma, e ad aver attraversato più gruppi: è stata affidata e ha vissuto in più comunità e quindi conosce la posta che viene messa in gioco quando si è in gruppo. Maria sembra non riuscire a separarsi dalla madre e i conflitti con il compagno sono continui. Non riuscendosi ad occupare da sola del figlio, chiede aiuto ai servizi sociali, che le propongono l’inserimento in una casa famiglia per giovani madri, istituzione nella quale la incontro e dove tuttora vive. E’ sospettosa nei confronti dell’istituzione e fa la fantasia che possa toglierle il figlio molto piccolo. Il figlio rappresenta per Maria una parte di sé, qualcosa di suo, dal quale è impossibile separarsi. Fa fatica nei momenti di cura del bambino: addormentamento, cambio del pannolino, momento dei pasti. In particolare nella fase di addormentamento Maria perde subito la pazienza se sente il bambino inquieto, diventando aggressiva sia verbalmente, con minacce e insulti, che fisicamente: mette il figlio a terra con forza e lo lascia disperare. Il pianto del figlio è intollerabile: non riuscendo a comprenderne il senso, quando il figlio piange manifesta una preoccupazione eccessiva, non riesce a gestire l’ansia al punto da diventare aggressiva con il bambino.
L’ inserimento nel gruppo di psicodramma analitico nasce proprio con l’intento di offrire uno spazio di contenimento e di elaborazione di questi vissuti angosciosi. Il bambino fa molta fatica a separarsi dalla madre, dalle cui braccia scivola e si divincola, per poi piangere ed aggrapparsi. È stato perciò attivato in istituzione un intervento sulla relazione madre-figlio affinché Maria possa imparare, attraverso il gioco, a riconoscere i segnali che manda il bambino e ad avvicinarsi alla mente del figlio. Maria segue di buon grado le indicazioni dell’educatore di riferimento, tuttavia è per lei molto difficile mantenere la calma. Maria viene inserita nei turni di cura quotidiana degli spazi personali comuni alle altre ospiti. Inizialmente ha un livello di cura e igiene piuttosto superficiale, ma gradualmente migliora. Le vengono affidati dei lavori all'interno della struttura, per testarla rispetto alla tenuta di un compito e di un impegno. Maria prende seriamente questi impieghi che porta avanti con costanza e qualità. Sa cucire e questa è una competenza che ha appreso grazie alla frequenza di una scuola di moda. Rispetto alle relazioni con gli altri, Maria tende a percepire l’altro o in modo adesivo, come una parte di sé, o come un nemico da attaccare, da escludere. Fa coppia con la madre, con la quale, a volte, sembra avere un rapporto in cui i ruoli sono invertiti: le dà consigli e la critica per i suoi comportamenti poco prudenti. Il lavoro che la casa famiglia si propone di fare con Maria è quello di offrirle uno spazio dove possa, con un sostegno qualificato, imparare ad occuparsi di sé e del proprio bambino. All’interno di questo progetto si colloca il gruppo di psicodramma analitico, a cadenza settimanale, preceduto da colloqui individuali di circa quindici minuti, che Maria ha spesso utilizzato.
Prima seduta
È il primo giorno di osservazione del gruppo di psicodramma. Mi presento dicendo che sono una psicologa e che parteciperò agli incontri come osservatrice. Ometto l’aggettivo “partecipante”. Penso che abbia a che fare con il timore di un eccessivo coinvolgimento emotivo. Sento che per me sarà un’esperienza importante che mi permetterà di mettermi in gioco e, al contempo, mi interrogo su come potrò assumere la funzione di Io Ausiliario proteggendo aspetti personali. L’animatrice aggiunge alla mia presentazione che posso essere scelta come personaggio nei giochi. Prende subito la parola Maria, la giovane donna che mi era stata descritta come molto intelligente ed esperta di psicodramma. Racconta un sogno, dandomi l’impressione che sa già che verrà giocato o che comunque sarà fatto un lavoro associativo: “Ho fatto un sogno anche stanotte, ma è un sogno stupido! Ero a casa di mia madre, sul balcone, con mio figlio in braccio. Chiamo mia madre per sapere quando arriva. Mi risponde e mi dice che è ancora in macchina e non può rientrare perché un aereo si è schiantato sulla strada e ci sono fiamme dappertutto”. L’animatrice invita a giocare il sogno. Maria sceglie Chiara per fare la parte della madre, spiegando che con entrambe ride molto, e me per fare la parte di suo figlio, perché ho gli occhi chiari come lui. In un primo gioco, Maria, al suo posto, rimane zitta e mantiene lo sguardo verso il basso; al momento dell’inversione di ruolo, nella posizione della madre, sembra stare più a suo agio e ripete esattamente le parole utilizzate nel racconto del sogno: “Vedo le fiamme dappertutto! Non riesco ad arrivare!”. Al posto del figlio, rispetto il copione e rimango in silenzio, senza fare doppiaggi. Mi sento scomoda, non riuscendo subito a comprenderne il senso. L’animatrice doppia Maria sottolineando la sua fatica a separarsi dalla madre. Questo intervento sembra permettere a Maria di poter dire, durante il doppio che fa a se stessa, che vorrebbe tanto il suo sostegno. Alla fine della seduta, ho la possibilità di confrontarmi con gli psicodrammatisti che mettono in evidenza che la rabbia di Maria ha radici profonde. Ha fatto esperienza di una madre incapace di prendersi cura di sé e della figlia, e che non è stata in grado di proteggerla dalle violenze del compagno.
Analisi della seduta
La mia presentazione al gruppo si apre con un’omissione sulla quale è importante che mi soffermi per dargli un senso. Riconosco subito il timore di un coinvolgimento emotivo legato al mettermi in gioco. Ma cosa vuol dire? Gaudé (2015) si chiede quale sia la posta in gioco del partecipante ad un gruppo di psicodramma, e a partire da questo interrogativo, si sofferma sulla possibilità che il gruppo offre di poter vedere, attraverso il porsi in relazione con l’altro, ciò che altrimenti non si può vedere di sé. La funzione di rappresentazione nello psicodramma pone il soggetto nelle condizioni di dover fare i conti con la sua dimensione di alterità: gradualmente emerge un soggetto che può guardare in una prospettiva diversa e può, pertanto, interrogare l’immagine nella quale si vedeva. Tuttavia, come sottolinea Croce (1990), lo sguardo dell’altro si rivela sin da subito come rischio che la propria immagine possa ritrovarsi frammentata, divisa nella visione che ciascuno dei partecipanti può rimandare in diversi momenti. Penso che il timore del coinvolgimento che ho sperimentato nel mio ingresso come osservatrice partecipante abbia a che fare proprio con questo. Ritengo che, nella mia posizione, “mettersi in gioco” rimandi anche ad altro. Carnevali (2015) si interroga sulla questione del mettersi in gioco dell’analista e sottolinea che quando lo psicoterapeuta mette a disposizione il suo spazio inconscio, e accetta di farsi coinvolgere, si fa oggetto trasformativo e, in tal modo, permette al paziente di ripercorrere emozioni non ancora rappresentabili e di avvicinare nel profondo le paure più arcaiche e i lutti non elaborati. In questo percorso è inevitabile incontrare la sofferenza invasiva e confusiva del paziente. Tornando alla seduta, Maria mi chiama ad interpretare la parte del figlio. Mi chiedo come possa tradurre questa richiesta in domanda. Dunque, mi interrogo sulla mia funzione nel gioco di Maria. I Lemoine (1972) definiscono l’Io Ausiliario come un sostituto provvisorio del personaggio reale evocato a livello immaginario nella rappresentazione. Aggiungono che l’Io Ausiliario viene investito dal desiderio inconscio del protagonista ed è scelto in funzione di sentimenti reali che permettono il transfert della persona evocata sul sostituto. Maria 6 mi chiama a giocare nella posizione di figlio, e la questione della figlia è un nodo ancora in elaborazione nella mia analisi personale. L’intuizione di Maria mi stupisce, ma comprendo che c’è qualcosa che viene veicolato attraverso lo sguardo. Mi appare chiaro quanto la scelta di un personaggio nel gioco non sia una scelta meccanica, basata su attributi fisici. Maria, infatti, non mi sceglie perché somiglio a suo figlio, non è questo che gioca. Riflettendomi in Chiara, mi pongo la stessa questione e mi chiedo: cosa ha colto Maria di questa donna da portarla a chiedere di rappresentare la madre? Perché per questo ruolo sceglie Chiara che è più giovane di me? Come mai invita me, che sono più anziana, a giocare il ruolo del figlio? Penso che in fondo, io sono figlia, in quel momento, dei due psicodrammatisti che mi hanno presentato come psicoterapeuta in formazione. Rispetto alla scelta di Chiara mi viene in mente che Maria fa coppia con la madre al punto da non riuscire a creare uno spazio accanto a sé per un compagno; dopo la nascita del figlio, sente forte il bisogno di ricongiungersi a lei, al punto da decidere di ritornare nella casa materna. Penso che Chiara, oltre ad essere una compagna di risate, è l’ospite della casa famiglia che permette a Maria di creare subito un legame adesivo: immediatamente dopo il suo ingresso, fa coppia con lei, manifestando sentimenti di gelosia e possessività. Cosa succede nella rappresentazione? Al posto del figlio sono rimasta in silenzio, non aggiungo nulla rispetto alle indicazioni che mi sono state date. Anche Maria non riesce a parlare al suo posto. Gaudé (1998) evidenzia che quando si sceglie qualcuno per interpretare un certo personaggio è perché si presuppone che ne sappia di più su quel ruolo. Mi interrogo, dunque, su cosa Maria senta di non sapere sul suo ruolo di figlia. È possibile pensare che sia faticoso per Maria stare nella posizione di figlia non raggiunta e non raggiungibile da una madre che non è stata in grado di occuparsi di lei e di proteggerla. È probabile che questo generi in lei una rabbia non rappresentabile attraverso le parole, ma solo con l’immagine condensata di fiamme che distruggono. Questo carico emotivo potrebbe essere talmente insopportabile per Maria, da dover essere negato, scisso e proiettato nel corpo e nella mente dell’Io Ausiliario, nella speranza di trovare accoglimento e una possibile elaborazione. È possibile pensare che per un ruolo di così forte investimento, Maria abbia scelto di giovarsi di me, in quanto psicologa, quasi a rimarcare l'esigenza di una struttura di contenimento più solida che le altri pazienti del gruppo non sembrano in grado di rappresentare. Carnevali evidenzia che se non si riesce a riconoscere subito l’uso inconscio che la persona necessita di fare del terapeuta, il contatto con l’angoscia del paziente può diventare intollerabile per il terapeuta, paralizzando, talvolta le sue facoltà e la sua persona. Alla luce di queste considerazioni cliniche posso leggere le difficoltà che ho 7 incontrato nell’interpretare il ruolo di figlio a più livelli: uno che riguarda me come persona che elabora la questione di figlia nella propria analisi personale; l’altro che riguarda la relazione con Maria, come esperienza viva, dialogo tra inconsci, un intreccio tra la persona del paziente e la persona del terapeuta. Alla fine della sequenza del gioco, nelle associazioni successive all’ interpretazione dell’animatrice, Maria comincia a prendere contatto con una parte di sé trascurata: poter dire che desidera il sostegno della propria madre significa iniziare a poter pensare di so-stare nella posizione di figlia senza esserne distrutta. Penso che l’animatrice abbia scelto di far giocare questo sogno proprio per permettere a Maria una riflessione sulla sua posizione di figlia non raggiunta dalla madre. L’osservazione finale (di cui riporto un frammento che ho potuto recuperare grazie alla collaborazione degli psicodrammatisti) sottolinea e rimanda il significante delle fiamme, che ha circolato anche tra i discorsi delle altre partecipanti: “Non vorrei essere così arrabbiata con te, mamma, vorrei poterti abbracciare, vorrei poter essere abbracciata da te, e il fuoco mi brucia, e brucia te, mamma. Come faccio a trovare la strada per incontrarti? Vedo solo fiamme tra me e te”.
Seconda seduta
Maria riporta un sogno:
“Sono a letto con mio figlio, e, mentre lo cullo, vedo uscire fuori dalla sua testa uno scorpione bianco. Scappo via dalla camera e vado in cerca degli operatori”. L’ animatore la invita a giocare questa scena e le ricorda che, per rappresentarla, può scegliere tutti i partecipanti tranne lui e la collega (la psicodrammatista che nella seduta ricopre il posto dell’osservatore). Maria chiede a chi si riferisca: pensava che i cognomi degli psicodrammatisti fossero i loro nomi. Mi stupisce questa confusione. Come è possibile che non abbia minimamente pensato che esiste un cognome? Chi dà il cognome? Penso sia utile tenere a mente questo punto. Prima di giocare il sogno, Maria aggiunge che il figlio dorme insieme a lei, nonostante il lettino del bambino sia molto vicino al suo: “Lo faccio per me stessa, per non sentirlo piangere di notte. Non lo sopporto quando piange!” Penso che questo pianto deve evocarle davvero tanta sofferenza per non poter essere ascoltato e compreso. A cosa la riconduce? Come può essere collegato con il discorso che sta portando? Tornando al gioco, Maria chiede a Carlotta di interpretare il ruolo dello scorpione, dicendo che fa questa scelta perché è di quello stesso segno zodiacale, e me per rappresentare il figlio, perché associa la fantasia del mio cappotto ad un abito del bambino. Fa delle scelte che si riferiscono a caratteristiche non legate ad aspetti psichici. L’animatore non chiede di esplicitare altri tratti che sente in comune tra i 8 personaggi del sogno e gli Io Ausiliari chiamati a giocare. Nella mia mente, prima ancora che Maria disponga le sedie, mi anticipo una scena a tre. Chi è lo scorpione? Qual è la minaccia? Poi penso che Carlotta era stata già scelta in vari giochi da Maria per interpretare il ruolo del compagno; io ero stata già chiamata nel posto del figlio. Carlotta, è, inoltre, quella più mascolina del gruppo: ha i capelli corti, ha sempre lavorato. Nel gioco, Maria appare impaurita dallo scorpione, interpretato da Carlotta in modo aggressivo. Spaventata, scappa via e, mentre si allontana, chiede aiuto, urlando. Io cambio il copione e dico che ho paura, avendo in mente che questo bambino è esposto ad un pericolo. Cerco di mantenere il ruolo assegnato, rispettando la consegna fornita dagli psicodrammatisti. Nella seconda parte del gioco, in cui c’è l’inversione di ruolo, lo scorpione giocato da Maria, è aggressivo nei confronti del bambino giocato da me e della Maria giocata da Carlotta. Questa aggressività non era venuta fuori nel racconto del sogno. L’animatore dà una nuova definizione dello scorpione rimandando che al posto di un corpo allungato che genera ha un pungiglione. Sottolinea che il contatto con un padre avvelena, ed è sentito come pericoloso. Collego il sogno riportato da Maria al sogno dell’aereo in fiamme della prima seduta a cui ho preso parte. Nel sogno dell’aereo, Maria era in attesa di una madre che non poteva raggiungerla, a causa di fiamme nella distanza tra loro, e questa attesa le impediva di essere mentalmente disponibile per suo figlio. Tornando al sogno di quest’ultima seduta, posso dire che c’è una madre che non è in grado di proteggere il proprio bambino da un pericolo, tanto da dover chiedere aiuto affinché questo avvenga. Penso che è proprio quello che vive Maria in casa famiglia: è lì proprio perché da sola non può provvedere a suo figlio. Al termine della seduta, in uno spazio post gruppo, gli psicodrammatisti sottolineano come Maria sembra aver cancellato la funzione del Nome del Padre, tanto da confondere i cognomi con i nomi degli psicodrammatisti. Aggiungono che sembra lasciare al padre solo la funzione di un animale che vive, ma che è pericoloso perché non è addomesticabile.
Analisi della seduta
Maria riporta un sogno e viene subito invitata a giocarlo. I Lemoine (1972) evidenziano che il compito dell’animatore nello psicodramma è quello di “punteggiare” (espressione lacaniana), il discorso del paziente, seguendo un orientamento diverso dal senso che il soggetto dà al discorso e che va nel senso della sua storia. Nello psicodramma il primo segno di punteggiatura compare quando il 9 racconto diventa rappresentazione drammatica e il terapeuta coglie la questione del soggetto. Dunque, mi chiedo come mai l’animatore abbia deciso di far giocare proprio questo sogno di Maria. Alla luce degli scambi avuti alla fine della seduta, posso pensare che lo psicodrammatista ritenesse utile mettere Maria nella condizione di porsi una domanda sulla funzione paterna, forse cancellata perché pericolosa. Per cercare di comprendere meglio, mi rivolgo alla teoria, proposta come chiave di lettura dagli psicodrammatisti. Per Lacan il padre è colui che separa il bambino dalla madre, inducendolo ad uscire dal suo stato iniziale di godimento totale e di fusione, per assumere un atteggiamento più attivo e autonomo verso se stesso e la propria vita. Il modello materno è “fusionale”, quello paterno rappresenta il distacco. La fondamentale funzione paterna è di permettere ai figli di guardare la madre dall'esterno, garantendo il rimodellamento della loro identità fisica e psichica. Nel secondo tempo edipico lacaniano compare la “parola traumatica” del padre, ma che fa bene alla madre e al bambino. Essa introduce un limite. La castrazione simbolica impedisce la soddisfazione incestuosa. La parola del padre, il suo “No!” rappresenta la funzione della Legge che impedisce l’incesto. Gerbaudo (2002) sottolinea che non è necessario che questa interdizione provenga direttamente dal padre, ma può avvenire anche attraverso il discorso della madre che trasmette al bambino il messaggio paterno. Dalla separazione tra madre e bambino si perde definitivamente qualcosa, e il desiderio nasce proprio da questa perdita. La funzione paterna non si esaurisce esclusivamente con il divieto del godimento incestuoso senza limite. Recalcati (2011) evidenzia che, insieme al padre normativo ci deve essere un padre donatore, colui che riconosce all’altro il diritto al desiderio. Il padre del terzo tempo edipico di Lacan è colui che attraverso la sua esistenza riesce ad offrirsi come una testimonianza del desiderio, proprio perché è in grado di rappresentarlo lui stesso. Se la funzione paterna è stata cancellata, mi chiedo come sia possibile per Maria fare una separazione con la madre (ed è proprio a questa domanda che rimandava il doppiaggio dell’animatrice nel sogno dell’aereo) e con il proprio bambino. Maria dice che non è possibile una distanza tra sé e il figlio, che dorme insieme a lei. Cosa succede nella rappresentazione? Nella prima parte del gioco, Maria è spaventata, ma sembra non riuscire a tradurre la sua emozione in parole: scappa e urla. Lo scorpione interpretato da Carlotta è aggressivo. Al posto del bambino, doppio e dico che ho paura. Lo dico perché penso sia importante verbalizzare ciò che può provare un bambino esposto ad un pericolo. Con il mio intervento propongo a Maria di rimanere nella posizione di bambina spaventata, affinché possa fare un pensiero sulla sua paura e non rappresentarla unicamente sotto forma di un’immagine onirica di un 10 animale pericoloso. Nella seconda parte del gioco, è evidente lo scarto tra discorso indiretto e discorso diretto. Maria al posto dello scorpione è molto aggressiva verso il bambino giocato da me e la se stessa giocata da Carlotta. A chi appartiene questa aggressività? Marie-Noëlle Gaudé (2015) evidenzia che il dispositivo dello psicodramma permette di prendere alla lettera l'idea di Freud che il sognatore “è” tutti i personaggi del sogno. Il sognatore li incarna effettivamente per il tempo del gioco. Penso che questo gioco abbia permesso a Maria di interrogarsi anche sulla aggressività, che mette in campo nella relazione con l’altro, e sulla relazione tra la se stessa aggressiva e la se stessa spaventata. La tecnica dell’inversione di ruolo permette di prendere distanza dal “corpo proprio” e di mettersi in rapporto con la propria divisione come soggetto (Croce, 1990). La violenza agita sul figlio, soprattutto quando piange, può essere letta e messa in relazione ad un’emozione non ancora pensata ed elaborata. L’osservazione finale (di cui riporto un frammento) apre a nuove domande e rimanda il tema dell’assenza del padre, lanciato dal gioco di Maria e poi lavorato soggettivamente da ogni partecipante: “Prima del gioco ci si sofferma sulla perdita del nome del Padre. Se si ha solo un nome chi ci avrebbe messo al mondo? Solo una donna? E il padre che sbuca alle spalle diventa un animale da cui difendersi? Non un fallo che genera, ma un veleno? Chi chiama e perché?
BIBLIOGRAFIA
Carnevali C. (2015). Dall'azione alla rappresentazione nel gioco analitico. Nuovi Quaderni di Psicoanalisi e Psicodramma Analitico, anno VII n.1-2/2015.
Croce E. B. (1990). Il volo della farfalla. Roma: Borla.
Gaudé M. N. (2015). Lo psicodramma freudiano, un apparato per rappresentare. Nuovi Quaderni di Psicoanalisi e Psicodramma Analitico, anno VII n.1-2/2015.
Gaudé S. (1998). Sulla rappresentazione. Narrazione e gioco nello psicodramma. Tr. It. Roma: Alpes Italia, 2015.
Gerbaudo R. (2002). Il bambino reale. Psicodramma analitico e istituzioni nella cura infantile. Milano: Franco Angeli Editore.
Lemoine E., Lemoine P. (1972). Lo Psicodramma. Tr. It. Milano: Feltrinelli, 1973.
Recalcati M. (2011). Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca moderna. Milano: Raffaello Cortina Editore.
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- “Presentazione CRPA” - di N. Basile
- “Stanze del sogno in istituzione” - di N. Basile, G. Preziosi
- “Pazienti gravi in un gruppo istituzionale, una sfida possibile?
Cosa rappresenta un gruppo di terapia con lo psicodramma in una istituzione?" - di S. Falavolti - “Un’esperienza breve di Role playing” - di M. Pagliarini”, A. Pascucci
- “Psicodramma in gioco negli scenari istituzionali” - di A. Pascucci
- “Lo Psicodramma Analitico in un’istituzione per giovani madri” - di S. Salvatore